L’aperitivo scientifico organizzato al Caffè del Pasticciere (Fano) giovedì 12 dicembre ha visto protagonista il professor Vincenzo Caputo Barucchi, docente universitario di Anatomia Comparata e Biologia Evolutiva dei Vertebrati Marini all’Università Politecnica delle Marche. Durante l’incontro, il professor Caputo ha offerto una panoramica affascinante sull’importanza del DNA per comprendere la biodiversità e i flussi genici negli ambienti marini, concentrandosi in particolare su vertebrati come cetacei, pesci e tartarughe marine.
Il relatore ha iniziato spiegando il ruolo fondamentale del DNA. Le quattro basi nucleotidiche che lo compongono – adenina, timina, citosina e guanina – si combinano in miliardi di modi differenti, creando la diversità biologica che osserviamo nelle specie. Oggi, il DNA è conosciuto principalmente dal pubblico per il suo uso in campo forense, in quanto consente di identificare un colpevole anche quando tutte le altre tracce fisiche sono sparite.
Il DNA in realtà è fondamentale per ricostruire la storia evolutiva delle specie marine, per identificare con precisione le popolazioni animali e per chiarire la presenza o l’assenza di certe specie nel Mar Mediterraneo. Ad esempio, l’analisi morfologica del rostro di pesce sega – visibile nella Chiesa del Carmine Maggiore di Napoli – e l’analisi delle sequenze di DNA antico estratto dalla sua cartilagine, hanno dimostrato che questa specie non ha mai abitato il Mediterraneo, nonostante le numerose leggende in merito. Inoltre, la genetica consente oggi di risalire a reperti datati milioni di anni fa, e addirittura di intraprendere progetti di “rewilding”, ossia il tentativo di ripristinare specie estinte o la biodiversità perduta.
Un esempio pratico di come il DNA possa guidare la gestione della biodiversità riguarda lo studio delle popolazioni di pesci spada in Mediterraneo. È stato identificato che esistono tre gruppi genetici distinti di pesce spada, ciascuno corrispondente a una specifica area di riproduzione. Questo dato è fondamentale per la gestione della pesca, poiché suggerisce che alcune aree potrebbero dover essere protette per garantire la conservazione della biodiversità e prevenire l’overfishing, a causa del quale la variabilità genetica di questo pesce è diminuita del 60% in soli 30 anni.
Il DNA ha permesso anche di tracciare le rotte migratorie delle tartarughe marine, come quelle spiaggiate a Manfredonia, ricostruendo le loro origini geografiche. Questi studi hanno rivelato quanto sia specifico il DNA di ciascun individuo, al punto che è stato possibile rintracciare tartarughe provenienti anche dalla Florida, attirate dalla ricchezza trofica dell’Adriatico. Tuttavia, le tartarughe sono spesso vittime di “bycatch”, per cui sarà necessario utilizzare attrezzature da pesca più sostenibili come i “turtle excluder devices”, reti che evitano il trattenimento della tartaruga.
Per quanto riguarda i cetacei il professor Caputo ha ricordato che le attività umane che minacciano maggiormente la loro variabilità genetica sono la caccia e la pesca, da quando sono state introdotte le imbarcazioni a motore. Le ricerche genetiche sui cetacei hanno portato alla recente scoperta di un ibrido di balenottera comune e balenottera azzurra nel Mediterraneo. Tuttavia quest’ ibridazione potrebbe, in futuro, minacciare l’esistenza delle specie più rare, il cui genoma potrebbe essere assimilato in quello delle specie più comuni. Nonostante le preoccupazioni, Caputo ha concluso con un messaggio di speranza; l’avvistamento di cuccioli di balenottera azzurra spiaggiati sulle coste italiane potrebbe essere indizio della presenza di questa specie in Mar Mediterraneo, frequentato probabilmente a scopi riproduttivi. Questo potrebbe segnare un importante passo verso il recupero delle popolazioni di cetacei nel Mare Nostrum.
Il DNA è quindi uno strumento potentissimo non solo per identificare le specie e tracciare la loro evoluzione, ma anche per proteggere la biodiversità marina e promuovere una gestione sostenibile degli ecosistemi.